Naturopatia e nutrizionisti: sfatiamo alcune credenze e luoghi comuni.
Naturopatia e nutrizionisti: sfatiamo alcune credenze e luoghi comuni.
Entriamo nel campo di azione principale della naturopatia e della terapia alternativa: la cura del benessere e della salute a partire dalla corretta alimentazione. Ci troviamo subito di fronte a un problema insolubile: la prescrizione di diete implica sempre e comunque l’imposizione di una scelta fatta dal terapista, medico o non medico, circa il tipo di alimenti, la loro modalità di preparazione e specialmente la quantità consentita e il loro abbinamento.
Come si concilia, in medicina alternativa, tale imposizione col principio della cura della persona nella sua totalità, l’approccio dolce e non violento? E’ esperienza comune che la dieta, qualsiasi dieta, costituisce uno stress non indifferente, proprio perché obbliga a un regime alimentare in aperto conflitto con quelle che sono le esigenze della persona. In altre parole, è noto che quasi tutto ciò che ci piace particolarmente è controindicato in una corretta alimentazione, al punto che essa, in teoria, se seguita alla lettera, porterebbe a bandire dal mercato di tutto il mondo una serie così vasta di alimenti da mettere, tra l’altro, in pericolo l’economia mondiale.
Dobbiamo precisare che, secondo la classe medica, qualsiasi intervento che abbia l’effetto di modificare il metabolismo è un atto medico, per cui la dieta può essere prescritta solo ed esclusivamente da un medico, anche se privo di specializzazione, mentre sarebbe assolutamente vietato il suggerimento dietetico a scopo terapeutico da parte di naturopati o di quella strana categoria di esseri umani che va sotto il nome di nutrizionisti, e in cui si fanno rientrare tutti coloro che hanno seguito un corso, anche per corrispondenza, sui principi dell’alimentazione.
Ma poiché, nella realtà di tutti i giorni, i consigli dietetici sono da sempre diffusi a tutti i livelli, dalle riviste femminili (ma solo le donne hanno sempre bisogno di seguire una dieta?) alle ricette di cucina scambiate tra amiche o diffuse in televisione, si è aperta una nicchia di mercato che ha consentito a sedicenti naturopati e sedicenti nutrizionisti di esercitare una competenza che apparterrebbe al medico, senza grossi rischi di essere denunciati. Si aggiunga che esiste un’altra categoria che svolge talvolta un’attività ai limiti della legalità, cioè quella dei dietisti, cioè di laureati in dietistica, non medici, i quali non possono per nessun motivo predisporre diete individualizzate a scopo terapeutico, cioè, di solito, di dimagrimento, ma che hanno buon gioco nel far credere di essere medici.
In ogni caso, naturopatia in testa, la inesistente “scienza dell’alimentazione alternativa” si è diffusa nel mondo occidentale a partire dalla diffusione, pochi decenni fa, della cultura macrobiotica, e da qui si è via via arricchita fino a trasformarsi in una disciplina che insegna ad alimentarsi secondo i seguenti principi, più o meno rigorosi a seconda delle varie scuole:
- Limitazione drastica del consumo di carni, fino all’esclusione di tutti gli alimenti di origine animale, secondo una scala di crescente rigore tra cultori dell’alimentazione naturale, vegetariani, vegani, crudisti, fruttivoristi, seguaci della macrobiotica.
- Divieto assoluto del consumo di due alimenti, considerati spesso come causa di tutti i mali dell’umanità: il latte (e i suoi derivati) e lo zucchero raffinato.
- Divieto di consumo di tutti i cereali se non integrali, di frutta e verdura non provenienti da agricoltura biologica o biodinamica, di solanacee e di tutti gli alimenti di produzione industriale, conservati o trattati in qualunque modo, fino al male per eccellenza, personificato negli OGM.
- Preferenza per tutti gli alimenti, se pur immangiabili, di provenienza orientale o comunque da paesi lontani, secondo il principio secondo cui più il cibo è esotico e più fa bene. Quindi consumo di derivati dalla soia, innanzitutto, e poi di tutto ciò che non appartiene alla nostra cultura e tradizione alimentare.
Come si nota, le differenze fondamentali con l’alimentazione non alternativa, riguardano scelte etiche di rinuncia ad alimenti di origine animale (su questo punto la medicina scientifica sembra invece considerare il mondo animale esclusivamente come carne da macello), a tutti quelli manipolati e lavorati dall’essere umano, e la preferenza per cibi semplici in genere.
L’alimentazione che viene normalmente consigliata in alternativa a quella del medico dietologo è quindi basata su carboidrati complessi, frutta e verdura, legumi, spesso pesce (il quale, forse perché non urla e spesso muore in silenzio e senza spargimento di sangue, è considerato una forma di vita di serie B rispetto ai vitelli, e quindi viene agevolmente immesso nelle diete “naturali”). Fin qui, più o meno, tutto bene. Il problema nasce quando, dall’asettica ricerca effettuata in laboratorio per analizzare il contenuto nutrizionale dei cibi, passiamo alla sua utilizzazione, cioè alla somministrazione all’essere umano.
Qui il problema non è più semplicemente quello di conoscere il contenuto calorico e le caratteristiche biochimiche dei vari nutrienti di ogni alimento, come ogni dietista e medico dietologo ha studiato approfonditamente. Qui si tratta di verificare, caso per caso, il gradimento, la tollerabilità, il potere nutritivo e la biodisponibilità di questi alimenti in rapporto non al sofisticato esame di laboratorio che ne misura la composizione, ma a quel ben più sofisticato organismo che è l’essere umano. Nell’essere umano, a differenza che nelle cellule analizzate in vitro, la risposta all’introduzione di qualsiasi alimento è sempre diversa sia sotto il profilo del gradimento che del suo fabbisogno, assorbimento e tollerabilità. Le persone, nonostante la scienza dell’alimentazione mostri di non considerarlo neppure, non sono un insieme di tessuti biologici che assorbono i nutrienti dai cibi e li immettono in circolo per fornire energia, ma sono imprevedibili creatura di straordinaria complessità, dotate, oltretutto, di un complesso di pensieri, di emozioni, di ricordi, di libero arbitrio, di idiosincrasie che gli esperimenti di laboratorio in vitro o sui topi non potranno mai rivelare.
Per cui ci troviamo di fronte a questa evidente contraddizione: l’essere umano moderno si è affrancato gradualmente dalla schiavitù della ricerca incessante del cibo e alla sua preparazione, per potersi dedicare, per esempio, allo studio, allo sport, allo svago, al lavoro, all’arte, alle relazioni umane.
Il ritmo della vita attuale, le esigenze economiche e commerciali dei produttori di cibo per l’essere umano, la stessa evoluzione dei nostri gusti che ci porta a privilegiare alimenti sempre più saporiti e di veloce assimilazione, stanno facendo sì che le nuove generazioni siano sempre più refrattarie al consumo di carboidrati complessi, frutta e verdura cruda, legumi e alimenti semplici in genere e si stia invece diffondendo in tutto il mondo il consumo sfrenato di carni di ogni tipo (compresi struzzo e canguro, per esempio) di pesce anche crudo (ricchissimo in mercurio e altre sostanze tossiche), di salse, fritti, condimenti, dolci, formaggi, salumi, “snacks”, creme, succhi, alcolici, caffè e altre droghe legalizzate, cioè di tutti quegli alimenti che il buon senso e i sani principi della nutrizione sconsigliano vivamente o persino vietano.
Chi si occupa di alimentazione come chi scrive si ritrova quindi quotidianamente a dover rispondere alle richieste di persone afflitte da tutti i disturbi legati all’alimentazione scorretta, in primo luogo il sovrappeso, le quali però non hanno nessuna intenzione di modificare le proprie insane abitudini, come ogni tossicodipendente abituale sa bene. Paradossalmente, il lavoro del dietologo alternativo potrebbe limitarsi, nella stragrande maggioranza dei casi, a suggerire di abolire totalmente tutto quello che piace e che si mangia abitualmente, sostituendolo con ciò che non piace. Ma se ci spostiamo dall’aspetto squisitamente tecnico-scientifico a quello etico-filosofico, possiamo domandarci fino a che punto ha senso parlare di alimentazione naturale imponendo modi, ritmi e tempi di assunzione del cibo, oltre a una serie di divieti e prescrizioni tassative, completamente diversi da quelli che la maggior parte della popolazione ha scelto e mostra di preferire.
Non sto affermando, ovviamente, che sia etico e corretto suggerire di mangiare in fretta hamburger e patatine fritte tutti i giorni. Do per scontato che la migliore alimentazione sia basata proprio sulle linee guida su indicate. Ma di fronte alla percentuale altissima di fallimenti nelle diete, di rinunce e di abbandoni di qualsiasi regime alimentare sia imposto dalle medicine, alternative o meno, mi chiedo se non sia necessario cominciare finalmente a considerare la corretta alimentazione come una conseguenza di un atteggiamento e di uno stile di vita corretto, sano e naturale, anziché il presupposto. E come quindi non abbia senso partire dall’imporre una rigida, se pur corretta, alimentazione senza almeno contemporaneamente fare in modo che la persona sia consapevole di dover modificare atteggiamenti e stili di vita. In altre parole, compito del “naturopata” o del terapista “olistico” non è tanto quello di suggerire una alimentazione ideale sotto il profilo dell’impatto ambientale, sociale, etico e politico (che peraltro mi trova accanito sostenitore), quanto quello di aiutare a creare i presupposti perché naturalmente le persone si nutrano in maniera equilibrata, rispettosa dell’ambiente e delle forme di vita che lo abitano, oltreché, ovviamente, del proprio benessere psicofisico. Chiunque operi professionalmente nel settore sa bene quanto sia frustrante per chi fornisce consulenza sulla salute trovarsi quotidianamente di fronte a persone per nulla motivate a seguire una alimentazione naturale. Persone che non hanno il tempo di andare a cercare gli alimenti biologici dal “contadino”, che sono costrette a mangiare un panino in ufficio o quello che passa la mensa aziendale, persone che dopo una giornata di lavoro non hanno voglia di bisticciare con coniuge e figli per costringerli a mangiare tofu e fagiolini lessati senza condimento. Quello che non funziona, in questa situazione, non è la scelta alimentare della persona, ma il suo stile di vita. E’ quest’ultimo che condiziona le nostre scelte alimentari, non viceversa.
La medicina, invece, alla quale, nonostante tutto, fanno riferimento le terapie alternative anche quando si occupano di alimentazione, concepisce il rapporto dell’essere umano col cibo come scienza dell’alimentazione: il suggerimento alimentare o il programma dietetico del medico o del dietista si fonda su tabelle dietetiche che forniscono l’analisi minuziosa della quantità e qualità dei componenti organici e inorganici di ogni alimento; la persona che deve seguire la dieta, invece, con i suoi problemi e le sue caratteristiche personali, non ha voce in capitolo ma opera solo come fosse un tubo digerente nel quale gli esperti di alimentazione introducono cosa vogliono, quanto vogliono e quando vogliono. Il metodo semplicistico, talmente banale ed infantile da rasentare il ridicolo, utilizzato nel prescrivere le indicazioni alimentari si fonda sul principio di intervenire dall’esterno per riequilibrare ciò che oggettivamente sembra squilibrato: se c’è una carenza si introduce una integrazione di quell’elemento, se c’è un eccesso se ne limita l’introduzione ulteriore o si introduce un elemento che contrasti e ne impedisca l’assorbimento. Per esempio, poiché il tessuto adiposo si forma a partire da grassi e zuccheri, chi voglia ridurlo è quindi sottoposto a un regime che gli vieta l’introduzione di questi nutrienti, se non nella minima quantità e qualità che il medico stabilisce secondo certi parametri ai quali, a quanto pare, dobbiamo sottostare tutti indipendentemente dalle nostre differenze individuali. Se c’è eccesso di colesterolo ematico si riduce il suo apporto tramite i cibi e si cerca di ridurne la produzione endogena attraverso innaturali sostanze chimiche che vanno a interferire con un naturale processo metabolico, ma non si impone l’unica cura sensata, cioè una sana e costante attività fisica. Se c’è carenza di ferro lo si integra attraverso i cibi che lo contengono in maggiore quantità o attraverso una integrazione farmacologica. Ma in tutti questi casi ci si dimentica che la valutazione del contenuto dei vari nutrienti nei diversi alimenti, come si legge nelle innumerevoli tabelle dietetiche, riveste scarsa utilità pratica, perché a un maggior contenuto di un certo nutriente non corrisponde necessariamente maggiore biodisponibilità per l’assorbimento intestinale. La scienza medica dell’alimentazione, proprio perché scienza, continua quindi a perseverare nell’errore di considerare l’essere umano come oggetto di analisi scientifica, attribuendo un valore pressoché nullo alla sfera mentale ed emozionale considerata ininfluente per il corretto funzionamento della macchina-corpo. Con un disprezzo assoluto per la nostra individualità, non solo spirituale, ma anche biochimica, la medicina e la dietetica medica obbligano il nostro organismo ad adeguarsi a quelle che sono le loro interpretazioni del corretto equilibrio metabolico. Se una persona, a un certo punto della sua vita, comincia ad accumulare tessuto adiposo per effetto della modificazione dell’equilibrio endocrino e/o per effetto di modificazioni del suo stile di vita, il problema da risolvere, a mio parere, non è quello di impedire che ciò accada attraverso l’imposizione del divieto di mangiare ciò di cui sente naturalmente il bisogno o somministrandogli sostanze chimiche e tossiche che vadano a impedire questo fisiologico cambiamento. Il problema è quello di fare in modo che la persona possa accettare un cambiamento del suo stile di vita fondato sulla consapevolezza e non sull’imposizione. In quest’ottica, non possiamo parlare di alimentazione naturale e rispettosa del nostro corpo quando impediamo a una persona di mangiare ciò di cui sente il bisogno, le facciamo soffrire la fame, le cambiamo secondo il nostro criterio il suo ritmo di vita e le sue abitudini, le togliamo, senza offrirle nulla in cambio, il piccolo o grande piacere e conforto che il cibo rappresenta per lei. Se noi invece ci chiediamo il motivo per cui il singolo organismo ha modificato il suo metabolismo possiamo ricavare risposte interessanti: per esempio che esso sta manifestando un disagio o una sofferenza che può avere spesso un’ origine non legata a una patologia organica, ma alla nostra relazione psicologica con noi stessi, con gli altri e con l’ambiente. In questi casi esso è costretto a dirottare energie metaboliche verso processi che il nostro organismo, e non il medico ritiene più importanti di altri, producendo quindi involontariamente un diverso disagio, ma agendo sempre e comunque per il suo e nostro bene, in quanto ogni reazione del nostro organismo è sempre una reazione di difesa e di sopravvivenza della nostra integrità psicofisica. Perché alterare questo equilibrio, solo per il fatto che certi valori che emergono dall’esame di laboratorio mostrano una non coincidenza con valori ideali? Non esistono valori ideali, sembra persino inutile doverlo affermare. Esistono solo quei valori che ognuno di noi, in quel preciso momento, esprime come manifestazione della sua continua ricerca di equilibrio e di benessere psicofisico. L’intervento medico ha una sua ragione d’esistere solo quando il nostro organismo è stato danneggiato in maniera traumatica e non risolvibile naturalmente, o in quelle situazioni in cui questa reazione, pur indispensabile per la sua sopravvivenza, ci impedisce una normale vita di relazione.
Si veda anche, sul tema, il sito: www.scuoladicounselingtorino.it